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domenica 31 agosto 2014

UN FANTASMA NEL LAGHETTO

Ogni castello o antico palazzo che si rispetti possiede il suo fantasma, un anima tormentata che vaga durante la notte in cerca di pace.
Anche uno specchio d'acqua evoca leggende, nel fondo oscuro è facile immaginare la presenza di mostri, fate, spettri o ninfe delle acque.

Laghetto Orto botanico Lucca

Il pittoresco laghetto dell'Orto botanico di Lucca custodisce il fantasma di una bellissima donna, Lucida Mansi.
Basta percorrere la passerella che lo attraversa e sporgersi un po' per vederla intenta a specchiarsi mentre sorride.


La storia si svolge nella meravigliosa città di Lucca, ricca di storia, personaggi e tradizioni.
Le antiche mura all'interno delle quali sorge l'Orto botanico custodiscono torri arcaiche, palazzi medioevali, rovine romane, chiese e anime di personaggi famosi, è qui che nasce e vive Lucida Mansi.

Le antiche mura

Lucida vive nel '600 ed appartiene ad una ricca famiglia lucchese. E' una donna bella, spavalda, amante della vita sfrenata, ha carisma e potere sul genere maschile.
Ma siccome la storia è scritta dagli uomini, attorno alle donne belle e potenti nascono sempre i pettegolezzi, le malelingue inventano ciò che non esiste.

Lucida è una donna avvenente che non rinuncia ai divertimenti e agli amori anche se maritata col ricco e anziano Gaspare di Nicolao Mansi.
Secondo la leggenda fa uccidere il marito per partecipare a feste e banchetti circondata da giovani uomini.
Ogni sera ne sceglie uno e, come una mantide, dopo aver trascorso la notte con il malcapitato lo fa uccidere facendolo cadere in un pozzo irto di lame.

Laghetto, particolare

Lucida non è innamorata altro che di se stessa: la sua casa è colma di specchi in cui può ammirare la sua totale bellezza.
Ma come ogni mortale un giorno scopre che una ruga e qualche capello bianco deturpano la sua perfezione, disperata piange senza sosta per giorni e giorni.

Il Diavolo ascolta le preghiere di Lucida, sotto le sembianze di un bel giovane in cambio di 30 anni di giovinezza e avvenenza chiede l'anima di Lucida Mansi.
La bella donna accetta senza pensare.

Le ninfee

La vita sfrenata e piena di amanti di Lucida continua nella Lucca seicentesca senza che la donna mostri segni di invecchiamento, ma il tempo trascorre veloce e il 14 Agosto 1623 il Diavolo compare per prendersi ciò che gli spetta.
La donna tenta di arrestare il tempo, si arrampica sulla Torre delle Ore, la più alta di Lucca, per fermare le lancette del grande orologio prima che batta la mezzanotte (207 gradini di legno, io ho rinunciato a salirvi!)

Il tentativo di Lucida fallisce e il Diavolo, padrone della sua anima, carica la donna al di sopra di una carrozza infuocata con cui percorre per tre volte il giro delle mura fino ad inabissarsi nel fondo del laghetto del Giardino botanico.


Nelle notti di luna piena, sulle sponde del laghetto, è ancora possibile udire le grida e i sospiri di Lucida Mansi che a bordo della carrozza infuocata corre verso l'Inferno. 
Se si osserva con attenzione tra le foglie di ninfea si può intravedere ancora oggi il bel volto addormentato sul fondo dell'acqua scura.

La leggenda viene tramandata a Lucca da diverse generazioni, la trama sembra un po' scontata ma qualcosa di reale si intravede.

Intanto la cinta muraria della città lascia senza fiato per la maestosità, la lunghezza (4 Km. e 195 metri) e soprattutto il fatto che sia completamente integra, una passeggiata all'ombra da percorre nella natura.

Torre delle ore

La Torre delle Ore svetta con i suoi 50 metri sulla città sin dal Medioevo, slanciata ed elegante, custodisce un antico orologio i cui rintocchi hanno scandito per secoli il tempo dei cittadini.


Lucida Mansi, realmente esistita, andò in sposa molto giovane e  nei primi anni di matrimonio il marito fu assassinato lasciando sola una donna bella e giovane.
Si sposò in seconde nozze con un ricco commerciante molto anziano e di aspetto sgradevole, il fatto suscitò scalpore e numerosi pettegolezzi.
Lucida desiderosa di autonomia condusse un'esistenza dissoluta tra feste e giovani amanti, mori di peste nel 1649 e le sue spoglie riposano nella cripta di famiglia.

Pneumatofori

Il laghetto dell'Orto botanico di Lucca è un angolo stregato veramente seducente, colmo di ninfee e caratterizzato dalla presenza di un Cipresso calvo (Taxodium distichum) che innalza verso il cielo strane braccia (pneumatofori) molto suggestive all'ombra delle antiche mura.
E' un luogo carico di storia e cultura, magia e segreti.

venerdì 29 agosto 2014

POMELIA , INCONTRO FATALE

Quello che ho avuto con Pomelia o Plumeria più che un incontro è stato un vero colpo di fulmine, un'attrazione incredibile verso la bellezza delle numerose nuances dei fiori che racchiudono un'ebbrezza che persiste nelle narici...
Un profumo esotico di terre calde, fruttato e potente, un aroma di limone e di gelsomino, di Sicilia e di giornate di sole, di rose, caprifoglio e di terre lontane.



Non sono riuscita ad evitare di aggiungere Pomelia alla mia sempre più numerosa collezione di piante, anche se conosco i limiti del fascia climatica in cui abito.
I miei agrumi si stringeranno un po' all'interno della serra!


Pomelia, un'Apocynacea il cui fiore ricorda quello dell'oleandro, arriva dalla gran parte delle regioni caraibiche (Sud America compreso), è chiamata anche Frangipani, dal nome del conte italiano che creò una profumazione simile a quella di questo fiore per la corte di Caterina de' Medici nel XVI secolo.

Pomelia racchiude in sè la bellezza accattivante dei tropici ed evoca ricordi di viaggi in terre assolate come Creta, ad esempio, meta di un mio viaggio passato.
Creta è un'isola dal clima mediterraneo perfetto per crescere piante di Pomelia, nella capitale Eraklion viene utilizzata come arbusto da siepe.
Alle isole Hawaii invece si confezionano profumatissime collane per accogliere i turisti ed ubriacarli con la profumazione che abbaglia i sensi.
Nei templi buddisti i fiori fragranti di Pomelia vengono offerti a Buddha, le donne indù ne indossano un fiore tra i capelli il giorno delle nozze come simbolo di fedeltà al marito.


La forte attrazione per questi fiori è iniziata molti secoli fa, nel XVI secolo il frate botanico ed esploratore Charles Plumier si innamorò di queste piante dopo un appassionato incontro con l'aroma seducente di Pomelia e le studiò nell'area caraibica.
Pare che Pomelia sia stata diffusa nel Nuovo mondo per merito degli spagnoli, tanto ammirate da diventare parte integrante del paesaggio e delle tradizioni per arrivare in Europa nel 1770 coltivate all'interno di serre calde in Inghilterra.



Nella nostra bella Sicilia, l'arbusto è legato alla città di Palermo dove fu ospitato per la prima volta in Italia all'interno dell'Orto botanico nel 1821.
Da allora i balconi della città sono spesso adornati e profumati con il meraviglioso arbusto esotico i cui teneri germogli vengono curiosamente protetti in Inverno con gusti d'uovo.
Per tradizione le madri palermitane usano offrire una pianta di Pomelia alle figlie prossime al matrimonio come augurio di fertilità.


Plumeria o Pomelia racchiude una decina di specie di arbusti o piccoli alberi dalla chioma allargata alcuni sempreverdi, altri a foglia caduca, con apparato radicale leggero e non troppo aggressivo.

Il fusto, scarsamente ramificato appare carnoso e lignifica col tempo, la corteccia grigio-verde appare squamosa.
I rami un po' nodosi e rigonfi portano grandi foglie lanceolate appuntite di colore verde più o meno scuro a seconda della specie, se incisi o spezzati emettono una linfa lattea tossica come quella di Oleandro ed Euphorbia.


Per tutta la bella stagione all'apice dei rami appaiono infiorescenze costituite da grappoli di grandi fiori cerosi a 5-7 petali (fino a 50 fiori per gruppo) dalla profumazione paradisiaca e dalle svariate colorazioni con il centro dalle sfumature diverse rispetto ai petali.
La varietà più comune (Plumeria alba) presenta fiori bianchi dal centro giallo, altre mostrano colorazioni dal viola all'arancio in tutte le loro diverse sfumature, rosso, fucsia, rosa.

Pomelia ama le posizioni assolate con un riparo nelle ore estive più calde, tollera aria salmastra ma non il vento che potrebbe lacerare le grandi foglie. 
La coltivazione in piena terra è possibile solo nelle fasce climatiche in cui la temperatura invernale non scende sotto i 5-6° C., il terreno deve essere ghiaioso e povero con forte capacità drenante.

Nelle restanti fasce climatiche è preferibile la coltivazione in vaso anche di modeste dimensioni purchè contenga terriccio leggero, poroso e in grado di mantenere l'umidità, meglio se associato a perlite o pomice, il drenaggio è molto importante per scongiurare il marciume radicale.


Pomelia tollera molto bene la siccità (le fioriture avvengono in natura dopo periodi aridi), le irrigazioni devono essere medie nel periodo estivo, diradandole verso l'Autunno fino alla sospensione invernale. 
Alla ripresa vegetativa primaverile iniziare una leggera irrigazione e concimare con fertilizzanti a lenta cessione ricchi di fosforo e poveri di azoto.

Le varietà a foglia caduca nel periodo invernale vanno a completo riposo vegetativo, è quindi sufficiente ripararle in luogo protetto anche scarsamente luminoso purchè ventilato e asciutto con temperature che non scendano sotto i 10°C. (come ad esempio Pomelia rubra).
Nelle fasce climatiche caldo-temperate Pomelia riesce a trascorrere l'Inverno all'esterno, basta addossarla ad un muro esposto a Sud e riparata dal vento.


Riparare Pomelia all'interno della casa non è però consigliabile, l'arbusto non è una pianta d'appartamento e non gradisce il clima secco dato dal riscaldamento artificiale.

Le potature non sono necessarie, a volte occorre rimuovere gli apici dei rami se hanno subito danni invernali per permettere la nascita di nuovi germogli.
La riproduzione di Pomelia avviene per seme o per talea, occorrono almeno 3 anni di accrescimento per ottenere le meravigliose fioriture.

mercoledì 27 agosto 2014

IL MACERO, UN RETAGGIO DEL PASSATO

Basta uno sguardo alla mia pianura per capire l'impronta agricola ancora presente nel territorio che circonda i centri abitati, la periferia è intersecata con le vecchie corti, le antiche aie si intravedono tra condomini o case a schiera.
Quello che spicca maggiormente è la presenza numerosa di maceri, fino a pochi decenni fa componenti indispensabili di ogni podere di tutto rispetto.


Macero

I maceri sono l'ultima testimonianza visibile di una fiorente attività agricola delle province dell'Emilia ormai in disuso: la lavorazione della canapa (Cannabis sativa).
Tutto il territorio delle province di Bologna, Modena e Ferrara ne è punteggiato, una diversificazione del paesaggio rurale molto interessante perchè offre un ambiente naturale utile come rifugio a piante e animali legati all'acqua.


Canapa (Cannabis sativa) 

Il macero è un bacino idrico artificiale, spesso di forma rettangolare, dalle dimensioni e profondità variabili, utilizzato dal '500 sino agli anni 50 del secolo scorso per il ciclo di macerazione della canapa.


Macero utilizzato per irrigazione

La coltivazione e lavorazione della canapa hanno rappresentato una delle attività agricole più faticose che i nostri nonni ricordino, compiti gran parte affidati alle donne.
Le professioni di agricoltore o bracciante sono state le più praticate in questi territori, il racconto del gravoso compito che alla fine di Agosto prendeva il via in ogni angolo della Pianura ricorreva spesso nei racconti della nonna.



La canapa giungeva a completa maturazione nei primi giorni di Agosto, erano gli uomini a tagliarla  vicino alla radice con un falcetto e insieme alle donne si formavano altissimi covoni con i fusti delle piante suddivisi per altezze.
I covoni dovevano essiccare per 4-5 giorni, in caso di pioggia occorreva coprirli.



Nella fase successiva, quella della macerazione, il macero giocava il ruolo principale: le fascine venivano adagiate su zattere affondate mediante grossi sassi del peso di almeno 7 chili ciascuno, disposti lungo le rive.


Fase della macerazione, Bologna 1928

La profondità dell'acqua doveva essere almeno 2 metri per ottenere una buona macerazione che era considerata completa quando i fasci di canapa apparivano sbiancati (dai 10 ai 20 giorni di immersione).

La nonna ricorda il momento in cui i fasci di canapa detti mannelle venivano estratti dall'acqua come la parte più faticosa dell'intera lavorazione: appesantiti dall'acqua raggiungevano un carico notevole, le zanzare poi non risparmiavano chi doveva trascorrere ore nei pressi delle sponde del macero.



Una volta disposta sulle rive, la canapa si asciugava in pile dalla tipica forma a capanna e, una volta essiccata, si doveva trasportare nei pressi della casa colonica in un'apposita struttura detta casella, oggi spesso recuperata e trasformata in una piccola ed elegante dependance. 

L'ultima fase comprendeva la battitura dei fusti macerati per rompere la parte legnosa ancora presente, seguita dalla pettinatura che eliminava eventuali residui e conferiva morbidezza e lucentezza alla fibre.
Questi momenti vengono ricordati con allegria, secondo me anche per gli effetti della Cannabis che tutti conosciamo. Pare che anche le galline che becchettavano i residui della lavorazione sembrassero ubriache e su di giri!! 


La preziosa fibra veniva utilizzata dalle famiglie contadine per fabbricare robusto cordame, prodotti tessili grezzi e carta.

Vecchi teli di canapa che ho trasformato in preziosi asciugamani

Al termine del ciclo occorreva eseguire una pulizia completa del macero, con cambio dell'acqua (poteva essere utilizzata per una sola macerazione, i gas di fermentazione avrebbero ingiallito la successiva lavorazione), pulizia dalle erbacce e consolidamento delle sponde.

Con l'acqua pulita si immettevano i pesci, in genere carpe, tinche e pesci gatto che contribuivano all'eliminazione delle zanzare e alla pulizia del microambiente da alghe ed erbe infestanti.
Durante l'anno i pesci fornivano sostentamento per la famiglia e venivano utilizzati per festeggiare la conclusione dei lavori legati alla canapa (quando le zattere venivano immerse, i pesci affioravano perché privati di ossigeno e si potevano pescare con facilità).



Il macero continuava a rappresentare un elemento prezioso anche al di fuori del momento della lavorazione della canapa: si utilizzava per annaffiare l'orto, lavare la biancheria e pescare le saporite rane, da friggere nello strutto.
Nelle giornate più afose il macero si trasformava in piscina, nei bacini di grandi dimensioni si utilizzava una piccola barca per pescare o far divertire i bambini.



Con l'avvento del proibizionismo e la concorrenza data dalle fibre artificiali, nella pianura emiliana la canapa non si coltiva più soprattutto per le restrizioni dovute alla somiglianza morfologica con Cannabis indica, più ricca di principi attivi stupefacenti della varietà sativa.


Presenza di Ninfea alba in un macero con ecosistema equilibrato
Macero prosciugato di cui si intravede ancorala forma


Oggi molti maceri sono stati interrati per recuperare "prezioso" spazio per edificare o per motivi igienici oppure ritenuti pericolosi, altri sono in completo abbandono e considerati una discarica dove abbandonare pietrisco o rottami. Spesso sono affiancati dalle vecchie case coloniche diroccate e lasciati al loro destino.


Macero colonizzato da Nuphar luteo

Nella realtà in cui vivo i maceri sopravvissuti sono stati salvati dal degrado, considerati un patrimonio inestimabile del nostro passato sono diventati piccole oasi ecologiche dove la natura ha preso il sopravvento, microambienti ricchi di specie vegetali e animali e sorgenti di biodiversità.
In alcuni casi sono stati convertiti in laghetti per la pesca sportiva o sono ancora utilizzatati per l'irrigazione delle campagne limitrofe.



Si possono ammirare maceri che hanno perso la forma geometrica iniziale e che con il tempo e l'assenza di manutenzione hanno assunto contorni naturali: alberi, piante palustri, avifauna, pesci e anfibi sono tornati per prendere possesso dell'eredità che i nostri nonni ci hanno lasciato.

Sono angoli di natura pieni di fascino sia dal punto di vista estetico che naturalistico, con uno scenario che mostra alberi caduti all'interno dello specchio acquatico intrecciati con la vegetazione palustre.



Tra gli alberi dominano le Salicacee come Pioppo (Populus) e Salice bianco (Salix alba), sulle sponde non mancano varietà di giunchi (Juncus), canne (Phragmites australis) e Thyphe latifoglia.
Gli arbusti come il Ligustro, il Sambuco e il Biancospino favoriscono la presenza di uccelli: Aironi bianchi e grigi e Garzette si nutrono delle loro bacche e nidificano nei pressi delle sponde.
Gli anfibi come tritoni e rospi trovano nel macero un perfetto habitat, spesso si sentono i muggiti della rana bue.


Presenza di girini nelle acque basse di un macero

Per la salvaguardia e la conservazione di questi specchi d'acqua rurali la Comunità europea, unitamente a diversi Enti regionali e locali, ha emanato regolamenti per un impegno (anche di tipo economico) affinché questi spazi siano recuperati.

venerdì 22 agosto 2014

ORTO BOTANICO DI PADOVA: IL GIARDINO DELLE BIODIVERSITA'

Dal 1545, anno della sua fondazione, nulla è cambiato nell'Hortus botanicus Patavinus, l'Orto botanico universitario di Padova, il più antico al mondo con sede e struttura praticamente inalterati in oltre 450 anni di studio e coltivazione delle piante.
Pianta dell'Orto botanico

Dopo averlo visitato è facile rendersi conto perché dal 1997 fa parte del Patrimonio Mondiale dell'Unesco, riconoscimento conseguito con questa motivazione:


"L'Orto botanico di Padova è all'origine di tutti gli orti botanici del mondo e rappresenta la culla della scienza, degli scambi scientifici e della comprensione delle relazioni tra la natura e la cultura. Ha largamente contribuito al progresso delle numerose discipline scientifiche moderne, in particolare la botanica, la medicina, la chimica, l'ecologia e la farmacia."

L'Orto è situato all'interno della cinta muraria cinquecentesca della città, circondato dai più famosi monumenti del centro storico: La Basilica di Sant'Antonio, Santa Giustina, a due passi da Prato della Valle e dalla Cappella degli Scrovegni, adiacente alla sede dell'antica Università di Palazzo del Bo'.


Architettura settecentesca delle porte

E' per facilitare gli studi sulle piante medicinali da cui trarre i medicamenti che nel XVI secolo il Senato della Repubblica di Venezia delibera l'istituzione di un Hortus semplicium con una votazione unanime.
La richiesta proviene dal titolare della cattedra universitaria Francesco Bonafede allo scopo di agevolare gli studenti ad osservare, sperimentare, riconoscere e coltivare le erbe medicinali sia indigene che esotiche.


Vasca ornamentale con ninfee

Al progetto dell'Horto dei Semplici partecipano grandi nomi dell'epoca, nasce un complesso dalla forma circolare in cui è inscritto un quadrato suddiviso a sua volta in quattro settori separati da due viali orientati secondo i punti cardinali.
Si tratta di una tipica ripartizione geometrica rinascimentale ricca di simbologie cosmiche arricchita poi nel '700 da quattro entrate monumentali di squisita fattura.


Le vecchie serre ottocentesce

Nel corso dei secoli la collezione botanica si è arricchita con serre sia calde che temperate e teatro botanico, attualmente sono coltivate 3500 specie vegetali provenienti da ogni angolo del mondo con particolare attenzione alle piante rare del Triveneto, dei Colli Euganei, della Laguna Veneta compreso tutto l'arco alpino.

All'interno dell'Orto Botanico di Padova sono rappresentati diversi ambienti nei quali vengono collocate le piante che li caratterizzano.


Cicuta maggiore, velenosa
Belladonna Atropa,velenosa

Tra la "Macchia mediterranea", la "Roccera alpina", la "Torbiera", le "Succulente", le "Serre tropicali", la collezione di piante medicinali e velenose, le carnivore, gli alberi sia comuni che rari, mi sono soffermata in modo particolare nella parte dedicata al mondo acquatico dolce.


Piante acquatiche  nelle vasche esterne
Pontederia cordata
Nimphaea Caerulea Savigny (Africa tropicale)

Nelle numerose vasche vengono coltivate moltissime idrofite, comprese le ninfee tropicali le cui foglie di grandi dimensioni e strabilianti forme mi hanno piacevolmente sorpresa.


Victoria amazonica
Euryale ferox

Interessante la serra tropicale dove la temperatura e l'alto tasso di umidità stordiscono e lasciano senza fiato, soprattutto per la presenza di numerose Orchideaceae e Felci.



Alcuni alberi spiccano per il loro valore anche di carattere storico come la "Palma di Goethe" (Chamaerops humilis) messa a dimora nel 1545 e che ispirò il grande poeta, svetta poi un maestoso esemplare di Ginkgo biloba piantato nel 1750 e la Magnolia grandiflora ritenuta l'esemplare più longevo d'Europa.
Presente anche una Metasequoia (Metasequoia glyptostroboides) ritenuta fossile fino al 1941, anno in cui fu reperito un esemplare in Cina ancora vivente e i cui semi sono stati diffusi e coltivati per la conservazione della specie.


Ginkgo biloba del 1750
Cedro dell'Himalaya
L'Orto svolge inoltre un ruolo molto importante per la conservazione della biodiversità con la fornita "Banca del germoplasma" che preserva i semi di oltre 2000 specie e custodisce all'interno di spazi adiacenti, una delle più notevoli collezioni storiche di erbari di grande interesse storico-scientifico.


Vasche esterne delle nuove serre
Uno degli ambienti interni

Le nuove e moderne serre, situate a Sud dell'antico Orto, sono pronte per l'inaugurazione.
Si tratta di un complesso architettonico innovativo molto ardito che è riuscito ad integrare la storia con la tecnologia del futuro. 
Le cinque serre inserite in una galleria di vetro e acciaio raffigurano un percorso attraverso i principali ecosistemi del Pianeta da un Polo all'altro con uno sguardo nello spazio.


Vasca esterna nuove serre
La fauna selvatica ha preso possesso delle nuove vasche esterne!
Pagina inferiore della foglia di Euryale ferox

Le nuove serre rappresentano un concetto sostenibile di modernità e rispetto verso l'ambiente e la ricchezza delle biodiversità da salvaguardare.